| scusate il ritardo, ma tra viaggi, pasqua e la preparazione per la maturità ci ho messo un po'. per farmi perdonare ho scritto un capitolo un po' più lungo...
ringrazio come sempre per i magnifici commenti (ho cercato anche di seguire i vostri consigli riguardo la narrazione) e vi auguro buona lettura
CAPITOLO 5 Passarono diverse ore, perché quando riacquistai sensi il crepuscolo era ormai inoltrato. Ero completamente incapace di muovere qualsiasi muscolo, solo i polmoni sembravano ancora funzionare, infatti respiravo affannosamente, tanto che ad ogni boccata, vedevo rotolare sassolini intorno al mio viso. Rimasi in quella posizione, inerme, per una decina di minuti, poi cercai di strisciare verso gli alberi sul retro della stazione di benzina, per non essere visto dagli eventuali automobilisti che rifornivano i propri serbatoi. Giunto alla mia meta, con la schiena ancora grondante di sangue ed un solo occhio in grado di vedere, poiché l’altro era tanto gonfio da impedirmi di aprirlo, caddi in un sonno profondo. Mi svegliai alla alba e decisi di raccogliere le mi membra e riportarle verso casa. Non potevo tornare dai miei, come avrei potuto spiegare il fatto che ero rimasto fuori tutta la notte e che inoltre non avevo addirittura chiamato per avvisarli? Decisi di andare nell’unico posto in cui aveva senso tornare, fu così infatti che mi diressi verso casa di Ludovica. Infondo la mia macchina era lì, i miei la conoscevano quindi non si sarebbero fatti problemi se gli avessi detto che avevo passato la notte lì e, riguardo il cellulare, potevo dire di averlo perso. Mi sollevai da terra, il sangue incrostato ora tirava tutta la pelle e le ferite lanciavano scariche di dolore al limite dell’insopportabile. Non so per quanto camminai, ma verso mezzogiorno arrivai a casa della mia Dea. Non avevo il coraggio di suonare il campanello, nella ma testa si affollavano troppi pensieri, non sapevo nemmeno se volevo davvero tornare nelle mani di quella ragazza, dopo che lei aveva abusato del mio corpo in maniera così barbara e spietata. La prima soluzione che mi venne in mente fu quella di trovare un posto dove stare, per poter almeno recuperare qualche energia e decisi di nascondermi nell’ampio giardino di casa sua. A fatica scavalcai la recinzione e mi nascosi tra i cespugli. Notai che nella casa vigeva il silenzio più totale, nei box mancava l’auto di famiglia e nessuna figura si intravedeva dalle finestre. Realizzai in quel momento che era sabato e perciò i genitori di Ludovica, come erano usi fare, avevano deciso di trascorrere il weekend all’isola d’Elba, dove possedevano una casa di villeggiatura. Potevo finalmente rilassarmi un po’ senza che nessuno si accorgesse della mia presenza. Sapevo però che Ludovica non amava quest’usanza famigliare e che molto probabilmente era rimasta a casa, anzi, ne ero certo poiché in quel momento vidi la finestra di camera sua spalancarsi. Mi nascosi istintivamente per non essere visto e riuscii pienamente nel mio intento. Quando il pericolo di essere scoperto era ormai passato raccolsi un mucchio di foglie, mi feci un giaciglio tra i cespugli e lì caddi di nuovo in un sonno profondo. Mi svegliai verso l’ora di cena, o almeno così credevo poiché il mio stomaco rantolava in maniera sinistra. Avevo fame, molta fame, ma di certo non potevo tornare a casa ridotto in quello stato, con la schiena ricoperta di sferzate sanguinolente ed un occhio macellato, inoltre non avevo un soldo, ne per comprarmi dei vestiti che non fossero lacerati, ne tantomeno per comprarmi da mangiare. Mi restava un’unica possibilità: entrando in cortile infatti, notai che la cuccia di Bobby era vuota e all’inizio avevo pensato che fosse nei paraggi, a schiacciare un pisolino all’ombra di qualche albero magari, ma non avendolo visto per tutto il pomeriggio conclusi che era partito insieme alla famiglia. Mi avvicinai di soppiatto al riparo canino e vidi, in un misto di gioia e ribrezzo, che la ciotola in cui mangiava era ancora piena. Fu una cosa apparentemente strana, infatti, perché, se il cane era partito con la famiglia, la sua ciotola era stata riempita? Le mie forze, però, erano al limite ed era ormai un giorno e mezzo che non toccavo cibo, quindi non mi feci troppe domande. L’odore nauseante del pappone provocava dei conati nella mia gola difficili da trattenere, ma quella era la mia unica speranza. Misi da parte l’ultima briciola di orgoglio che mi era rimasta e cercai di vincere il ribrezzo che quel cibo provocava in me, mi inginocchia, mi misi a quattro zampe e, nel culmine dell’umiliazione, mi gettai con la faccia nella ciotola, come un cane famelico. Divorai tutto ciò che stava nel contenitore e, non contento, bevvi anche dalla ciotola dell’acqua, sempre a quattro zampe, come gli animali. Infine, invaso completamente dalla vergogna, ma con lo stomaco finalmente pieno, mi raggomitolai nella cuccia e decisi di passare li la notte. La temperatura era calata di molti gradi in poco tempo, un forte vento spazzava il cielo e la terra, tanto che passai tutto il tempo in preda ai brividi, dormendo ben poco. Solo verso mattina l’aria si fece di nuovo tiepida, motivo per cui riuscii ad addormentarmi. Per quanto fosse scomodo dormire su assi di legno, raggomitolato in posizione fetale, non potei lamentarmi più di tanto del riposo, ma fu il risveglio che mi lasciò senza parole. Sentii infatti un forte strattone al collo che quasi mi lasciò senza fiato e che mi fece andare di traverso la saliva. Cominciai a tossire violentemente e, quando gli spasmi passarono, riacquistando piano piano la vista, annebbiata dalle ore di sonno, vidi di fronte a me il viso radioso di Ludovica. Nella mano destra reggeva fermamente un guinzaglio, che subito notati essere agganciato al mio collo e, sfoggiando un sorriso radioso, disse: “Dormito bene Bobby?”. Il sangue mi si gelò nelle vene, non ero riuscito a passare inosservato, anzi lei sapeva tutto e non solo, aveva addirittura previsto tutto. “Dovevi essere affamato ieri, ho visto come hai divorato tutta la pappa che ti lasciato ahahahah!”. Ormai era sempre un passo avanti a me, mi leggeva dentro, per lei ero un libro aperto: sapeva che sarei venuto da lei nonostante tutto, sapeva che avrei avuto fame e aveva deciso di infliggermi un’ulteriore umiliazione, sapendo che mi sarei piegato a mangiare il cibo riservato alle bestie. Il suo ghigno trionfante mi sovrastava e, avendola vista di buon umore, dato che era riuscita nel suo perfido intento, sperai di muoverle un minimo di pietà e, ansimando come un vero cane, iniziai a leccarle le scarpe. “Ma guarda che bravo cucciolotto che fa le feste alla sua padrona!” disse accarezzandomi la testa con insolita gentilezza. Cercai di godermi a pieno quel momento, infatti stavo giustamente onorando la mia dea come meritava e lei sembrava soddisfatta, tanto da “coccolarmi” mentre lo facevo…cosa potevo volere di più? La mattinata trascorse tranquilla, infatti Ludovica aveva deciso di trattarmi esattamente come il suo cane, divertendosi a lanciare oggetti, che puntualmente dovevo riportarle. Mi diede solo qualche calcio, ma solo quando davvero lo meritavo, ad esempio se facevo cadere qualcosa dalla mia bocca nella foga di correre a quattro zampe ai suoi piedi, o se per caso, riportando qualche oggetto lanciato molto lontano, impiegavo più di una frazione di secondo (non è giusto infatti che una Dea come lei sprechi inutilmente qualche istante della sua esistenza per colpa di un insulso schiavo). Tra un gioco e l’altro però si fece ora di pranzo, quindi Ludovica afferrò con decisione il mio guinzaglio e, con passo spedito, mi portò dentro casa. Mi condusse in sala da pranzo, mi fece accucciare di fianco alla sua sedia e si mise a tavola. Il cibo era già pronto, glielo avevano lasciato i suoi prima di partire, così iniziò a mangiare. Morivo di fame ma, non osai chiedere una briciola, finché, ad un certo punto, Ludovica si bloccò qualche secondo, poi disse: “Che sbadata!! Non ti ho dato nulla da mangiare!! Toh verme!!” e così dicendo lasciò cadere un boccone di lasagna a terra, calpestandolo prontamente con le proprie Stan Smith bianche immacolate. Non potevo rifiutare quell’orrido boccone, sia per la troppa fame, ma soprattutto per non disobbedire alla mia padrona e così leccai avidamente la suola della sua scarpa intrisa di cibo, cercando di raccoglierne il più possibile. Il sapore amaro della sporcizia che aveva calpestato era disgustoso, ma nonostante ciò rimossi fino all’ultimo pezzettino di ragù intrappolato nelle scanalature della suola. Avevo finito di gustare il mio boccone e mi stavo leccando i baffi, quando una tallonata violenta colpì la mia nuca, facendomi sbattere con forza il viso sul pavimento. La botta fu allucinante: “non so come sei abituato nella stalla in cui vivi, ma qui sei in una casa, la mia casa e il pavimento deve essere immacolato!! Forza verme lecca, lecca per bene, non deve rimanere nulla hai capito?!”. Non appena mi ripresi cominciai a strofinare la lingua sul lucido marmo della sala da pranzo, rimuovendo colpo dopo colpo, strisce di cibo e polvere dalle piastrelle. Mentre leccavo però, Ludovica abbassò lo sguardo, dalla sua posizione infatti poteva vedere benissimo la mia schiena e con fare divertito disse: “Guarda un po’ come ti ho ridotto, sembri come quei muli da soma che, essendo creature così umili e rivoltanti, si meritano solo nerbate fino alla morte ahahaha!!! Anzi sai cosa ti dico, non solo si meritano nerbate, ma devono anche ringraziare chi spreca il proprio tempo prezioso a massacrarli!! Avanti, ringraziami!!” “Grazie padrona per aver sprecato il suo prezioso tempo per lacerare il mio indegno corpo!” “Ahahahaha!!”. Tutto mi aspettavo tranne ciò che fece dopo quella sadica risata: aveva infatti preso una boccetta di sale dalla tavola e, non contenta delle ferite che mi aveva inferto, rovesciò il contenuto su tutta la mia schiena. Lanciai un urlo, le lacrime colarono dai miei occhi senza che potessi controllarle, il dolore era straziante, ma evidentemente alla mia Dea non importava minimamente, infatti anche lei si era messa a piangere, sì…ma dalle risate! Non mi sembrava vero che dopo tutto ciò che mi aveva fatto, dopo tutta la lealtà che le avevo dimostrato, dopo tutte le umiliazioni che mi aveva inflitto, potesse comportarsi così, però era troppo bella, troppo superiore, troppo perfetta e quindi poteva permetterselo. “Pensavo fosse un po’ insipido il pavimento così com’era, non ti dispiace vero se l’ho insaporito un pochino?! Ahahahaha”. La ragazza gentile e affettuosa che si era presentata al mattino era definitivamente scomparsa. Finito di pranzare mi trascinò senza molti complimenti verso camera sua, lasciandomi lì da solo per qualche minuto. Tornò qualche istante dopo e notai che si era completamente cambiata. Non indossava più gli shorts colorati e la canottiera di prima: ora infatti portava un top nero di pelle, che lasciava intravedere gran parte del ventre piatto e modellato da anni di palestra, culottes abbinate, capelli raccolti e stivali di pelle nera al ginocchio, con la punta arrotondata, un leggero plateau e tacchi d’acciaio che si assottigliavano sempre più verso al pavimento, tanto che, più che parti di una calzatura, sembravano due armi. La visione di lei in quella veste era allo stesso tempo spaventosa e paradisiaca, i capelli raccolti, inoltre, le davano un tono così sofisticato e crudele, che imponeva sottomissione incondizionata solo a guardarla. Ero quasi commosso dalla sua bellezza, ma a tanta bellezza corrispondeva altrettanto sadismo. Mi mise a quattro zampe, avvicinò la sedia e appoggiò le gambe anteriori di essa sul dorso delle mie mani, poi con noncuranza si sedette, infilzandomi le mani con le gambe della sedia, poi piantando i tacchi acuminati nelle ferite sparse sul mio dorso e, infine, accese la sua canonica sigaretta. Non sto nemmeno a descrivere quanto male facesse quella posizione, quanta sofferenza potesse infliggermi semplicemente stando seduta comoda sulla sedia, usandomi come poggiapiedi e soprattutto con quanta indifferenza faceva tutto ciò. Faticavo a resistere in quella posizione infernale e il tempo che ci mise a finire di fumare mi sembrò davvero interminabile, preso com’ero a combattere contro la folle sofferenza della sedia che cercava di trapassarmi le mani e i tacchi che riaprivano gli squarci che stavano lentamente rimarginandosi. La sua voce ruppe il silenzio: “Tu faresti tutto per me? Anche se questo comporterebbe conseguenze pericolose? Anche se decidessi di esagerare? Anche se perdessi il controllo? Allora pezzente…quanto saresti disposto a sopportare?”. Ero spaventato, veramente e tutto il male che mi stava causando in quel momento mi rendeva ancora più difficile rispondere, poi però mi tornò alla mente quanto fosse dannatamente bella, mi tornò in mente l’emozione della prima volta che la vidi, l’emozione della prima volta che mi rivolse la parola e l’emozione di quando la mia lingua toccò per la prima volta le sue scarpe impolverate, consegnandomi di fatto a lei per sempre e ciò mosse la mia anima. “Io non sono niente, non sono nemmeno degno di baciare il terreno su cui cammini, di leccare la sporcizia sotto le suole delle tue scarpe, di vivere nel tuo stesso mondo, di condividere la stessa aria e calpestare la stessa terra. Tu sei tutto, sei la perfezione e pertanto non posso essere io a decidere, sei tu, è il tuo volere che ha valore assoluto per me. Non importa ciò che pensa un lurido verme come me, fai di me ciò che ritieni opportuno!” I suoi occhi si illuminarono e le sue membra si rilassarono di colpo, come quando si entra in una vasca d’acqua calda dopo una gelida giornata d’inverno. Aveva raggiunto il potere assoluto, il controllo totale su un atro essere umano, che ora era disposto a sacrificarsi solo per un suo capriccio….era una sensazione impagabile! Fece l’ultimo tiro di sigaretta, poi si alzò in piedi gettando a terra il mozzicone ancora fumante. Un solo gesto con l’indice mi fece capire che dovevo mangiarlo, e così feci. “Dopo ciò che hai detto forse non meriti di essere trattato proprio come un cane! Sai ultimamente ho avuto un po’ nostalgia della mia infanzia, di ciò che facevo, di ciò che sentivo, delle sensazioni che provavo. Mi ricordo che il mio gioco preferito era un vecchio cavallo a dondolo, era così bello, ma poi andò perso nel trasloco. Ho deciso che voglio provare ancora quella felicità e spero che ti riterrai particolarmente fortunato nel sapere che tutto ciò sarà possibile grazie a te! Non sei contento? Ora non sei più ridotto alla stregua di un’umile cane, bensì tu ora sarai una bestia di alto rango, sarai addirittura un cavallo! Vedi quanto sono magnanima con un lurido verme come te?!”. Non sapevo cosa aspettarmi da tutto ciò, so solo che in quel momento mi gettai ai suoi piedi colmo di riconoscenza e le baciai gli stivali con devozione. “Baciali, baciali con passione, mostra la tua sottomissione…fintantoché ne sei ancora in grado” e così dicendo mi indicò una particolare struttura che stava alle mie spalle: due mezze lune di legno unite con delle sbarre trasversali formavano una specie di U basculante in fondo alla stanza. Su ogni mezza luna vi erano due piccole pedane quadrangolari sormontate da piccole punte d’acciaio. “Immagino tu abbia capito di cosa si tratta vero? Tu sei il cavallo…e quello è il dondolo! Ahahaha!!! Avanti ora mettiti a quattro zampe poggiando su ogni pedana rispettivamente una mano e un ginocchio per lato…non hai idea di cosa ti aspetta!”. Tremavo, sapevo di essere spacciato, ma ormai avevo pronunciato quelle fatidiche parole e per di più erano anche parole scaturite dal profondo, motivate. Il mio destino era segnato e quindi, con riluttanza mi posizionai sopra quell’attrezzo infernale. Subito le punte perforarono la mia carne, straziandomi dal dolore e bloccandomi così in quella posizione. Per qualche secondo non vidi più Ludovica, ma quando riapparve capii che sarebbe davvero finita male. Aveva infatti indossato dei pesanti guanti di pelle per proteggere le sue tanto delicate quanto spietate mani, imbracciato un frustino e nella mano destra reggeva un rotolo di filo spinato. “Da qui non si scappa più! Ahahaha” e così dicendo avvolse il filo spinato attorno alle mie gambe e alle mie mani, assicurandomi permanentemente alla struttura di legno. Grugnii e urlai, in preda alle lacrime e al dolore quando ogni centimetro d’acciaio acuminato entrava in contatto con la mia pelle, lacerandola. La crudeltà negli occhi di Ludovica aumentava ogni secondo. Prese da un angolo della stanza una pesante sella, la fece cadere di schianto sulla mia schiena ormai completamente dilaniata, assicurò la cinghia sotto il mio stomaco poi, inspiegabilmente, si diresse verso la sua scrivania e si sedette sulla sedia da ufficio posta di fronte. Rovistò un po’ tra gli scaffali e infine afferrò con decisione un cofanetto. Nel momento in cui lo aprì lanciò un’occhiata maliziosa verso ciò che rimaneva di me: dalla scatola infatti, fecero capolino due speroni d’oro massiccio, affilati come rasoi e splendenti come gioielli. Sbarrai gli occhi e, in preda al panico, cercai di divincolarmi freneticamente, nel vano tentativo di liberarmi. Ero pervaso da puro terrore e ora rimpiangevo ciò che avevo fatto, ma il filo spinato e le punte d’acciaio la pensavano diversamente, obbligandomi, non solo a rimanere in quella trappola disumana, ma aprendo anche impietose ferite all’aumentare del mio dimenarmi. Dal canto suo Ludovica indossò gli speroni con tutta calma, godendosi ogni momento, e infine, alzandosi con aria solenne e sorriso intriso di puro sadismo, si diresse verso di me. I miei occhi supplicavano, ma non c’era pietà in quella ragazza. Mise il primo piede sulla staffa sinistra e, con un guizzo, si issò su di essa. Rimase qualche secondo in quella posizione, giusto per assicurarsi che le punte d’acciaio sotto il mio ginocchio sinistro affondassero nella carne fino all’articolazione. Lanciai un grido disumano, che continuò finché Ludovica non decise di montare completamente in sella, infliggendo all’altro ginocchio lo stesso trattamento. Come ciliegina sulla torta, infine, prese l’ultimo pezzo di filo spinato che era avanzato e, con un movimento secco, lo fece passare attorno agli angoli della mia bocca, facendone così delle briglie. Le punte si conficcarono nelle mie guance, nelle labbra e nelle gengive, ricoprendo il mento con un fiotto di sangue. Completata la preparazione, Ludovica diede finalmente un colpo con i sanguinari speroni sulle mie cosce e iniziò a cavalcare. “Avanti, avanti, galoppa lurida bestia, sbrigati!” . Ribadiva ogni parola con colpi di speroni e strattoni alle “briglie”, senza preoccuparsi minimamente che ogni suo movimento causava in me una sofferenza disumana. A ogni colpo di sperone la pelle si squarciava, sangue usciva dalle cosce, dalla bocca, dalla schiena a contatto con la sella, dalle mani e dalle ginocchia e, nonostante tutto ciò, Ludovica continuava ad incitarmi con colpi ripetuti, aggiungendo anche delle nerbate con il frustino. La sua furia continuò per svariati minuti, riducendo il mio corpo seviziato, al limite dell’umana sopravvivenza. All’inizio latravo come un animale per il dolore, piangendo, singhiozzando, disperandomi per ciò che stavo subendo, per un capriccio della mia dea, che senza alcuno sforzo, anzi divertendosi, mi stava lentamente torturando allo stremo; poi piano piano, smisi di emettere suoni poiché, raggiunto il limite massimo di sofferenza, iniziai lentamente a spegnermi. Le mie condizioni erano critiche, ma anche Ludovica, che se ne era accorta, aveva rallentato il ritmo per permettermi di rimanere cosciente e prolungare così la mia agonia. Infine, quando fu soddisfatta, si fermò e dopo alcuni secondi passati a godersi il momento, troneggiando sulle mie membra dilaniate, scese dalla sella. Ero sopravvissuto! Non so come, non so perché, con danni che sicuramente sarebbero stati irreversibili, ma c’ero ancora. Mi slacciò la sella e tolse il filo spinato dalla mia bocca, tuttavia mi lasciò legato a quello strumento di tortura, poi prese una sedia e si posizionò di fronte a me. La mia testa penzolava incassata nelle spalle stremate, sul viso una maschera di sangue ricopriva ogni cosa, le cosce erano lacerate e brandelli di pelle penzolavano tra i rivoli rossi che scorrevano su di esse. Accese una sigaretta e rimase a fissare il prodotto della sua crudeltà con aria soddisfatta. Sollevò le gambe e posò i talloni affaticati su un comodino che le stava pochi centimetri a fianco. La mia vista era annebbiata, ma riuscivo comunque a vederla, a vedere la sua bellezza, che nascondeva però anche tanta crudeltà, la sua superiorità, la sua perfezione. Un terremoto scosse la mia anima, non mi importava di ciò che mi aveva inflitto, della mia vita o di altro. Diedi un improvviso strattone con la parte destra del corpo, tanto che, in un primo momento, Ludovica sobbalzò quasi indispettita, poi con la parte sinistra diedi un altro strattone. Nel fare tutto ciò aprii ulteriori ferite con il filo spinato e con le punte d’acciaio, che amplificarono ulteriormente la sofferenza. Non mi importava! Continuai così finche la struttura alla quale ero assicurato non si mosse ed iniziò a scivolare proprio verso il comodino, su cui erano appoggiati i piedi di Ludovica. Pochi centimetri sembrarono chilometri, ma alla fine raggiunsi il mobiletto ed esausto, stremato, dilaniato, baciai devotamente le suole sporche dei suoi stivali. “Quanto sei patetico!! Nonostante tutto ciò che ti ho fatto continui comunque a leccarmi gli stivali!! – e rincarando addirittura a dose - Avanti, forza, lecca anche gli speroni, quegli speroni che ti hanno lacerato la carne, puliscili, non voglio vedere nemmeno una goccia del tuo lurido sangue su di loro!! “. Non c’era riconoscenza, non c’era pietà nelle sue parole, nemmeno dopo questo gesto. Per lei tutto le era dovuto e poteva permettersi qualsiasi crudeltà, reclamando comunque adorazione. Leccai quegli spietati gioielli dorati, bucandomi ripetutamente la lingua nel farlo, allungando così il tempo impiegato a rimuovere il sangue. Finii il mio compito come ordinatomi, ripulendo qualsiasi residuo sugli speroni. Ludovica, come ringraziamento, mi porse l’ormai consueto mozzicone ardente da deglutire ed io come sempre fornii i miei servigi come posacenere umano, senza fiatare. Baciai per l’ultima volta i suoi piedi, come una Dea quale è lei merita. “Ggg-g –g rra-zie P-p-paa-d-ddr…” Infine i miei gomiti cedettero e mi accasciai in uno stato di semi incoscienza. Ludovica si alzò lentamente, poggiando un piede sulla mia mano destra. “Di niente!” e con un secco calcio fece sprofondare la mia mano dentro le punte d’acciaio del supporto, che la trapassarono.
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