| Una questione di buona crianza:spreco, classe e prestigio.
La prima immagine che si lega all’idea di spreco alimentare è quella del cibo abbondantemente comprato nei supermercati, abbandonato in fondo ad uno stipo per poi puntualmente essere gettato marcito, alterato, diventato altro rispetto a quello che si era voluto, pregustato, sognato. Lo spreco è, quindi, avanzo buttato. All’idea di spreco sembra legarsi quindi quella di trascuratezza, di sciatteria, di cattiva cittadinanza. Sembrerebbe un universale antropologico, ma se non lo fosse? Fosse invece parte integrante di una dinamica di classe?
La risposta viene da un’usanza leccese: quel modo di fare che passa sotto il nome di crianza o crianza leccese. Per crianza si intende il ben fare, un insieme di norme che obbligano l’ospite all’invitato e l’invitato all’ospite. È crianza, infatti, offrire porzioni abbondanti, ricche ed essere pronti a bis altrettanto sfarzosi; dall’altra, e soprattutto, è crianza non mangiare tutta il sontuoso cibo, per quanta fame o voglia uno abbia, ma lasciare qualcosa nel piatto, un boccone possibilmente non toccato, riservato alla servitù.
La crianza è a pieno titolo un’economia politica dello spreco, in cui l’avanzo, destinato all’invitato od al servo svolgono una fondamentale ed inevitabile funzione comunicativa e sociale, come la cruanza fosse uno strumento attraverso cui le classi agiate comunicassero il loro status al mondo. La crianza, l’esibizione dell’inesauribile pietanze è chiaramente segno di ricchezza con cui l’ospite comunica ai suoi invitati; ma è altrettanto dimostrazione di status il non finire il piatto, il riservare un boccone intonso in quanto dimostrazione della sazietà e della generosità verso le classe più deboli, i servi.
Quella di fare mangiare i propri scarti agli slave è una pratica bdsm molto diffusa.
|