6 - VESTITA DA SERA
Mi osservavo allo specchio: erano passati diversi giorni e su tutto il petto e l'addome fiammeggiavano ancora i segni del passaggio di Nicole, in piccoli circoli ora rossi, ora quasi neri, alternati a veri e propri lividi violacei e gialli. Non c'è che dire, aveva fatto sul serio, e quella marchiatura che mi portavo addosso mi riempiva di orgoglio e di felicità, resa ancora più preziosa dal fatto che nessuno, esclusi Lei e io, avrebbe compreso, là fuori, in quel mondo esterno che per me si faceva sempre più ovattato e contava sempre meno.
Nei giorni a seguire non si era ripetuta una situazione come quella di quel pomeriggio, ma questa volta la magia non era stata bruscamente interrotta da Nicole come in precedenza. Gli sguardi e le occhiate erano espressivi, e in qualche occasione quando ci eravamo trovati da soli mi aveva concesso spesso di baciarle i piedi come segno di immensa devozione, che non mancavo di dimostrarle, ma non si era più spinta oltre a questo. Pur assecondando il tributo, mi congedava quasi subito con un delicato "Ora vai". Persisteva il suo mistero, ma il legame non era reciso, e pertanto attendevo sempre con rinnovata speranza ogni occasione di incontro in casa e l'imminente partenza di papà per il weekend in Lussemburgo.
E arrivò il giorno di quella cena prevista in casa nostra. Avevamo una domestica e cuoca, che però veniva solo la mattina dei giorni feriali, perché papà non amava troppo "avere gente per casa", ma in occasione della cena si trattenne per occuparsi di tutto e furono ingaggiati a ore addirittura due camerieri per l'occasione. Papà sarebbe arrivato con gli ospiti per l'orario di cena, e nel primo pomeriggio telefonò che c'era un cambio di programma per la partenza. Mi sentii venire meno. Non sarebbe più partito? Non proprio: si scusava con noi, ma sarebbe dovuto partire subito dopo la cena. Una volta terminata si sarebbero recati immediatamente all'aeroporto.
Mi sentivo trasecolare, non provavo quella sensazione di attesa impaziente ed euforica da quando ero bambino e mi promettevano qualche cosa di speciale. Nicole girava per casa e sembrava felice che fosse in programma la cena, chiacchierava con la domestica, sempre a suo modo, mai rumorosa, mai sopra le righe, ma decisamente allegra. Si preoccupò di come mi sarei vestito e scelse per me un abbinamento con cravatta; poi la sentii chiudersi nel bagno e prepararsi.
Poco prima delle 18:00 apparve chiamandomi sulla porta e la seguii nella sua stanza. Nel suo ambiente, ricolmo dei suoi profumi, la vista di Lei pronta per la serata, con il trucco che ne esaltava ogni dettaglio, fu letteralmente come un fendente, che mi lasciò tramortito. "Fammi vedere, come ti sei conciato" sorrise nella sua versione "materna", mentre cercava di raddrizzarmi la camicia e la cravatta, che avevo in qualche modo tentato di vestire alla meno peggio.
"Che disastro! Bisogna aiutarti a vestirti come i bambini.. come sei messo però non si può aggiustare, aspetta, bisogna rimetterla.." Mi fu dietro e armeggiò con la cravatta.
Il suo profumo mi avvolgeva completamente e confondeva tutti i miei sensi. Si muoveva lentamente e sentivo la sua bocca, così rossa, estremamente vicina al mio collo. "Un vero disastro.." disse ancora, e invece che sciogliere il nodo della cravatta la sentii ritrarla verso sé e avvolgerla con gesto fulmineo attorno alla gola, provocandomi un'improvvisa e completamente inattesa sensazione di soffocamento. Come riusciva ogni volta a sorprendermi, era davvero indescrivibile. Volli accennare un sorriso per quello scherzo, ma la dolce, allegra dama che si stava prendendo cura di me in quel momento in modo addirittura materno, non allentava la presa. La vidi riflessa nello specchio e colsi il suo sguardo, che non era più quello di scherzosa confidenza.
Iniziai ad accasciarmi abbassandomi e Lei seguì il movimento spingendomi leggermente, e in contemporanea allentando leggermente la stretta, in modo che potessi tornare a respirare, il giusto da consentirmi di tossire furiosamente appoggiato su un fianco. Lei mi osservò sedendo su una poltrona accanto e sollevò leggermente una gamba, carezzandomi il viso dalla fronte alla bocca con un piede velato. "Su piccolo, torna in camera tua e sistemati per bene, che è quasi ora. Se hai bisogno di una mano per la cravatta, chiamami pure".
Ero incredulo, non sapevo che provare, al cospetto di quella donna, per la millesima volta trasformata sotto i miei occhi, più bella che mai. Annuii e ancora una volta, afferatole il piede, con il respiro ancora spezzato, me lo strofinai sul viso baciandolo con inspiegabile gratitudine, e sparii nella mia stanza, dove con molto maggiore impegno mi ricomposi più adeguatamente.
Che cosa dovevo aspettarmi da Nicole? Ormai non mi erano nuovi questi pensieri. Giocava con me come il gatto con il topo e in alcuni momenti sembrava davvero non avere alcuna pietà nei miei confronti. Avrebbe anche potuto uccidermi? Ma che sciocco, ero proprio un bambino ad avere questi pensieri, mi dicevo. E quella tenerezza che mostrava nei miei confronti che cos'era? Dove andava a finire, in un battito di ciglia, quando si trasformava in una Dea tanto spietata? E tutto questo mi faceva male? Quanto male? La verità era sempre la stessa. Non importava; non importava assolutamente nulla fin tanto che mi era concesso anche solo un istante tra le sue mani o sotto ai suoi tacchi.
Giunsero gli ospiti e la cena fu servita; non fu certo un divertimento per me, tra conversazioni stucchevoli e formali alle quali non partecipavo minimamente, e nelle quali non venivo certo invitato a partecipare. Per tutto il tempo osservavo Nicole, così bella come mai l'avevo vista prima, attendendo uno sguardo di intesa in quella situazione o uno spunto di conversazione. E per tutta la serata, Lei non ricambiò un singolo sguardo. Non lo fece mai: nemmeno per sbaglio.
In alcuni momenti quasi disperai, mi sentii pieno di ridicolo, non mi preoccupavo nemmeno che qualcuno potesse notare quanto la fissavo. Se anche mi avesse rivolto il più fuggevole sguardo, a rassicurarmi sulla mia esistenza, non avrei voluto perderlo. Anzi, nel corso della serata bevve del vino rosso e, pur nella sua magistrale compostezza, mai sguaiata, mai eccessiva, era evidentemente più disinvolta e allegra del solito, nell'interpellare ora l'uno, ora l'altro commensale, con il suo inglese naturale o con il suo italiano con quel lieve accento così irresistibile. Alla fine della cena, sentivo le mie vene drenate di ogni fluido, e la più nera disperazione aveva invaso la mia mente.
Nessuno sembrava averlo notato.
Mio padre e gli ospiti si prepararono a partire; l'ora si avvicinava. Mi abbracciò e mi salutò con le solite raccomandazioni e con una rassicurazione, "tranquillo, non preoccuparti, con Nicole sii a tuo agio, ormai per lei sei quasi un figlio". Io ero molle e passivo come non mai, ma anche questo passò inosservato.
La casa tornò quasi silenziosa, con i soli rumori dei domestici che terminavano il lavoro, mentre Nicole fumava in veranda. Non passò molto tempo che tutto fu sistemato e restammo soli a casa. Ancora del tutto impossessato da quel sentimento puerile, restai sulle mie ma senza perdere di vista la porta della veranda. Quando Nicole sarebbe rientrata, l'avrei quasi ignorata salutandola freddamente e andando a dormire, come Lei aveva ignorato me. Ma ecco il rumore della porta e il mio cuore sobbalzare fino alla gola.
Il rumore dei suoi tacchi ed eccola davanti a me; pochi secondi per decidere il da farsi, cosa dire e come accomiatarmi immediatamente. Non mi concesse tutto quel tempo. Con quello sguardo nuovo, corroborato anche dal vino, con il viso ancora splendidamente incorniciato dal trucco, non ritenne necessario dire alcunché: mi afferrò per la cravatta trascinandomi verso di sé mentre si voltava in direzione del divano. Fui in ginocchio in un istante, mentre la seguivo gattonando, preso al guinzaglio. Pochi centimetri davanti a me, le sue gambe, i suoi collant beige, le sue scarpe décolleté con tacco a spillo che mi avevano straziato qualche giorno prima. E di nuovo ci eravamo: semplicemente, nient'altro importava.
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